Benvenuto Alfonso De Lucia.
Grazie, è un piacere essere qui.
Raccontaci un’immagine della tua infanzia e della tua città, Nola.
Vengo da Nola, una città ricca di storia e di tradizioni: pensiamo a Giordano Bruno e soprattutto alla Festa dei Gigli, che fa parte del patrimonio immateriale dell’UNESCO. Mio nonno era coltivatore diretto, produceva vino e da bambino passavo con lui tanto tempo nei campi. Ho un ricordo vivido: mi appendevo al torchio mentre prestava le uve, era per me un gioco ma in realtà stavo respirando un mondo che anni dopo sarebbe diventato la mia vita. È nato tutto lì, da quelle giornate semplici, fatte di fatica e di passione.
Quale odore ti rimane dell’infanzia?
Senza dubbio l’odore della fermentazione dell’uva, inebriante e indimenticabile. Ogni settembre e ottobre aspettavo la vendemmia, un momento di festa e comunità. Oggi lavoro in Irpinia, a Paternopoli, terra di Aglianico e Fiano. Coltivo senza pesticidi, rispettando i cicli naturali: non voglio forzare la natura, ma lasciare che esprima i suoi sapori autentici. Per questo i miei vini non sono mai uguali di anno in anno. Non ho enologi fissi: ho imparato molto dal grande Gianluca Mazzella, che mi ha trasmesso una visione di autenticità.
Cosa significa essere imprenditori al Sud, in un settore così competitivo?
Significa confrontarsi con colossi come Barolo, Franciacorta, Chianti, territori forti e consolidati. In Campania produciamo appena il 2,2% dell’uva italiana. Per questo occorre educare i consumatori a bere bene. La mia produzione è volutamente limitata: circa 2.500-3.000 bottiglie all’anno, che escono solo dopo 6 o 7 anni di lavoro e attesa. Il tempo non è un costo, è parte dell’autenticità, è ciò che rende il mio vino unico.
Quando hai deciso di dedicarti completamente al vino?
Nel 2005 presi in gestione alcuni vigneti a Paternopoli: non ho figli e sento ll vigneto come un figlio da accudire. Nel 2008 ho lasciato il lavoro nell’informatica per dedicarmi interamente alla vinificazione. Ho ridotto la resa a 40 quintali per ettaro rispetto ai 120 standard: è un sacrificio, ma solo così si ottiene un vino autentico, capace di raccontare il territorio.
Quali tecniche usi per rispettare la natura?
Uso trattamenti naturali: bicarbonato, buccia d’arancia, ortica, alga piperita. Evito prodotti chimici aggressivi: la pianta si rafforza e il terreno resta vivo. È più faticoso, ma mi restituisce la serenità di sapere che quello che metto in bottiglia è puro. Per me il vino deve essere espressione sincera della terra, non il risultato di correzioni artificiali.
Il vigneto ha avuto anche un effetto personale su di te?
Sì. Stare tra i filari, seguire i cicli della natura, mi ha insegnato pazienza e autenticità. Mi ha aiutato a gestire lo stress e a riscoprire me stesso. L’esperienza nell’informatica mi è utile per monitorare dati come temperatura e umidità, ma la vita vera la impari con le mani nella terra.
Cosa consiglieresti a un giovane viticoltore?
Di investire tempo. Non si può avere fretta. Bisogna vivere il vigneto, conoscerlo, imparare a rispettare i suoi ritmi. Solo così si trova l’equilibrio tra mente e corpo. Io stesso sto lavorando anche a un progetto di benessere che unisce vino, olio e esperienze immersive, fino ai massaggi con il miele. La natura ci insegna ad armonizzare tutto: lavoro, salute, vita personale.
Come nasce una bottiglia del tuo vino?
La nascita inizia a marzo con la potatura, continua con i trattamenti naturali fino alla vendemmia tra settembre e ottobre. Raccogliamo solo i grappoli maturi, eliminando quelli acerbi. La macerazione dura 6-8 mesi, il vino riposa poi in silos e in botti per un periodo che può andare da 12 a 36 mesi. Infine, dopo un ulteriore affinamento in bottiglia, il vino è pronto. Ma non prima di 6-7 anni dalla vendemmia. È un ciclo lungo, che richiede pazienza e dedizione. Non puoi accelerarlo: è la natura che detta i tempi.
Che tipo di consumatore acquista i tuoi vini?
È un consumatore collezionista, un amante del vino naturale che non cerca mode ma autenticità. Chi compra una bottiglia di Lucina sa che riceverà un prodotto unico. Io consegno personalmente le bottiglie, allegando un manuale e un certificato di tracciabilità. Ogni bottiglia è numerata: è una sorta di blockchain del produttore, un modo per garantire al cliente la certezza di ciò che beve. In questo modo difendo la qualità e mi prendo la responsabilità diretta del mio lavoro.
Quanto è importante il Made in Italy nel tuo settore?
Moltissimo. Il mondo apprezza il Made in Italy, anche se tanti prodotti vengono clonati. Quando ho fatto assaggiare i miei vini negli Stati Uniti ho ricevuto feedback entusiasti: il Made in Italy vero, quello che nasce da passione e sacrificio, è sempre riconosciuto.
Come immagini l’evoluzione del mercato del vino?
I rossi tradizionali perdono terreno, mentre crescono i bianchi leggeri, le bollicine e persino i vini dealcolizzati. I giovani cercano bevande più fresche e meno alcoliche. È un cambiamento culturale che dobbiamo interpretare senza rinunciare alla qualità.
Quanto conta il packaging oggi?
Conta moltissimo. L’etichetta, il tappo, la confezione: sono parte integrante della comunicazione. Non devono solo essere belli, ma raccontare una storia, trasmettere autenticità. Il packaging è il primo contatto con il consumatore e deve parlare la stessa lingua del vino che custodisce. Ai giovani produttori consiglio di partire dai bianchi: danno ritorni più rapidi rispetto ai rossi, che hanno bisogno di più anni di affinamento. Ma devono sempre farlo con solidità e qualità.
Come si beve un tuo vino?
Ogni vino va rispettato. Bisogna aprirlo 4-5 ore prima, lasciarlo respirare. Va assaggiato con attenzione, degustato lentamente, in piccole quantità durante il pasto. È un rituale che aiuta a comprenderne davvero l’essenza. Non è una bevanda da consumare in fretta, ma un’esperienza da vivere.
Rifaresti tutto ciò che hai fatto finora?
Nella vita personale sì, rifarei tutto. Sul piano professionale, forse non avrei perso tempo in attività che non mi davano soddisfazione. Ma ogni esperienza serve a formarti. Oggi il mio desiderio futuro è investire anche in Francia, per produrre vini d’eccellenza e magari creare quello che io chiamo il “pata negra di Paternopoli”: un prodotto raro, prezioso, riconosciuto a livello internazionale.
Cosa ti viene in mente pensando a Italia Best Company?
La parola “eccellenza”. È un’iniziativa che valorizza persone straordinarie che mettono anima e professionalità in quello che fanno. Mi riconosco molto in questo spirito.
Se fossi ministro dell’Agricoltura, quali manovre metteresti in campo?
Partirei dalla tutela del territorio: vincolo paesaggistico per i vigneti, azzeramento dei pesticidi, limitazione delle zone di produzione per non stravolgere gli equilibri naturali. E poi investirei nei giovani. Occorre sostenere le microimprese agricole, valorizzare i prodotti locali e difendere il vero Made in Italy. Solo così potremo restare competitivi nel mondo.
Grazie Alfonso.
Grazie a voi, a presto.

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Iasevoli Fabio
Consulente del Lavoro
Studio Iasevoli -
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