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Cannavale Chiara

Benvenuta Chiara.
Grazie, è un piacere.

Professoressa, apriamo con un tema cruciale: quanto conta oggi la flessibilità nelle PMI?
È tutto. Le PMI sono più resilienti delle grandi aziende perché meno ingabbiate da strutture rigide. Ma per valorizzare questa flessibilità, serve cultura imprenditoriale. Le PMI devono imparare a fare rete, non per opportunismo, ma per crescere insieme, superando limiti strutturali e accedendo a mercati esteri. Questa è la chiave per renderle più forti e sostenibili nel tempo.

E questo può aiutare anche con l’attrazione dei talenti?
Esattamente. Le PMI spesso faticano ad attrarre giovani perché percepite come meno attrattive rispetto alle multinazionali. Ma possono offrire ambienti più umani, esperienze più dinamiche, maggiore responsabilità e coinvolgimento diretto. Comunicando meglio questi aspetti, possono diventare una scelta competitiva per i giovani.

Ha avuto un mentore che l’ha ispirata?
Sì, la professoressa Adriana Calvelli è stata centrale nella mia formazione. Con lei ho scoperto la passione per la didattica e una visione dell’impresa che va oltre i numeri. Poi Gerard Fink, in Austria, mi ha aperto al mondo del cross cultural management, quando ancora era poco conosciuto in Italia. Due figure che mi hanno segnato sia professionalmente che umanamente.

Che ruolo hanno oggi gli studenti nella sua vita professionale?
Centrale. Sono una risorsa continua. Lavorare con loro ti costringe ad aggiornarti, a reinventarti, a restare connessa con il presente. Cerco sempre di seguirli anche dopo il percorso universitario. Oggi, con la rete Alumni, manteniamo un filo diretto che spesso si trasforma in collaborazioni o progetti condivisi.

E come cambia oggi il modo di insegnare?
Tantissimo. I ragazzi di oggi sono cresciuti in un’epoca diversa: pandemia, crisi climatica, iperconnessione. Hanno meno capacità di concentrazione, ma anche strumenti incredibili. Bisogna saperli ascoltare, trovare il linguaggio giusto per entrare in relazione. E accettare che l’insegnante oggi non è più solo fonte di sapere, ma guida, allenatore di pensiero critico.

Il suo lavoro spesso mette in contatto studenti e aziende. Quali ponti si possono costruire?
Le aziende devono capire che l’università non è un mondo a parte. Portare in aula casi concreti, creare challenge, costruire percorsi di formazione congiunti: tutto questo aiuta gli studenti a vedere il mondo reale. E le imprese, anche le più piccole, possono scoprire giovani talenti motivati, pronti a dare un contributo immediato.

Parliamo di startup. Come aiutare un giovane a superare i famosi “primi 3 anni”?
Oltre al business plan, serve tanta perseveranza. I fallimenti esistono, ma non devono scoraggiare. Il ruolo dell’università deve essere anche quello di accompagnamento continuo. Noi, con il master in Entrepreneurship and Innovation Management in collaborazione con MIT Boston, facciamo proprio questo: seguiamo i ragazzi dalla formazione all’incubazione della loro idea.

E la concorrenza globale?
Non ci si può più illudere che l’internazionalizzazione sia una scelta: è la norma. Anche chi opera localmente subisce la competizione globale. Occorre mentalità aperta, strategia e capacità di adattarsi. E soprattutto, non barricarsi ma puntare su ciò che ci rende unici: qualità, creatività, capacità di relazione.

Un nome che torna spesso nei discorsi di innovazione: Adriano Olivetti.
Un faro. Ha saputo coniugare tecnologia, cultura, bellezza, welfare. Ha creato un modello che mette la persona al centro, e ci ha mostrato come si possa innovare pensando anche al benessere collettivo. Dovremmo raccontarlo di più, anche ai nostri studenti.

Che esperienza ha avuto in Africa?
Due progetti straordinari in Marocco e Tunisia. In Marocco ho visto una gioventù vivace, pronta all’imprenditorialità. In Tunisia abbiamo lavorato per l’occupazione femminile, con risultati concreti: ragazze che oggi hanno avviato piccole imprese o lavorano in aziende locali. Per me un’esperienza umanamente fortissima.

Quando ha capito che voleva insegnare?
Dopo un’esperienza bellissima nel mondo della moda, stavo per partire per Parigi, quando la mia docente mi propose il dottorato. Ho deciso di restare. Non è sempre stato facile, ma non ho mai smesso di sentire che questo è il mio posto.

E a chi vorrebbe diventare docente?
Di pensarci bene. È una strada lunga, con sacrifici, precarietà. Ma se hai dentro la vocazione, allora ne vale la pena. Non è solo trasmettere contenuti, è ispirare, formare, essere una presenza. E oggi più che mai servono insegnanti appassionati, capaci di guardare avanti.

Tre messaggi: ai suoi studenti, agli studenti in generale e alle imprese.
Ai miei: non mollate mai, soprattutto le ragazze. Lavorate, crescete, scegliete l’autonomia. Agli studenti in generale: fate ciò che vi piace, ma fatelo con impegno. Solo così potete eccellere. Alle imprese: apritevi alle università, ai giovani, alle idee. Da queste connessioni può nascere il futuro.

Cosa significa per lei Italia Best Company?
Un messaggio di eccellenza, ma anche di lavoro costante verso l’eccellenza. Mi ha colpita per l’impegno concreto, non per una celebrazione fine a se stessa. L’idea di mettere insieme imprese, studenti, professionisti è straordinaria.

E cosa vuole fare da grande?
Continuare ad insegnare con la stessa passione. E magari fondare un laboratorio sul cross cultural management per aiutare le imprese italiane a internazionalizzarsi con consapevolezza. E continuare a lavorare per l’imprenditorialità femminile, una vera missione.

Grazie Chiara.
Grazie a voi. È stato un vero piacere.

Francesco Russo

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